Questo “post” è il frutto della mia personale esigenza di comprendere meglio il fiume d'informazioni e di opinioni che in questi giorni ci sta investendo sul conflitto tra Russia e Ucraina. In particolare ho cercato di comprendere se l’espansione della NATO sia davvero il motore principale delle azioni di Putin, se sia giusto costringere l’Ucraina a un eventuale futuro da Stato-cuscinetto e se davvero nel Donbass ci sia stato un genocidio di cittadini ucraini di etnia russa.
LA NATO TRA LUCI E OMBRE
La NATO si è costituita poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, in funzione implicitamente anti-sovietica: l’isolamento di Berlino Ovest nel 1948 da parte dell’Armata Rossa, che costrinse le potenze occidentali a organizzare un ponte aereo per rifornirla, fu il fatto determinante alla nascita dell’Alleanza Nord Atlantica. Nel testo del Trattato vi è comunque una costante
auto-subordinazione all’Organizzazione delle Nazioni Unite (di cui, tra l’altro, l’Unione Sovietica è uno dei membri fondatori, con tanto di diritto di veto) e un altrettanto costante rimando alla sua
funzione essenzialmente difensiva. Dopo il 1989, con l’avvio del processo di dissoluzione dell’URSS e del Patto di Varsavia (l’alleanza militare contrapposta), la NATO avrebbe potuto teoricamente anche sciogliersi. In ogni caso, se si eccettua l’intervento militare nei Balcani, la rete di alleanze occidentali (quindi l’intreccio de facto tra NATO ed Unione Europea) ha consentito alle tradizionali potenze del Vecchio Continente di godere del periodo di pace, sui loro territori, più lungo della storia.
La NATO e il Patto di Varsavia (per nostra fortuna…) non si sono mai dovuti militarmente e direttamente confrontare.
Il primo intervento armato della NATO è infatti il già citato conflitto contro una Jugoslavia in via di completa dissoluzione, avvenuto
nel 1995, quindi quattro anni dopo il crollo dell’URSS.
Le Guerre Jugoslave sono un argomento estremamente complesso da affrontare, che ci condurrebbe lontano dall’intento di questo “post”. Ciò che mi preme però sottolineare è che il
casus belli dell’intervento militare della NATO ha notevoli punti di contatto con ciò che oggi sta accadendo in Ucraina.
Per l’articolo 5 del Trattato, la NATO può intervenire militarmente solo in difesa di uno Stato membro sotto attacco. In relazione all’intervento nei Balcani, tale vincolo fu “interpretato” dall’escamotage retorico dell’allora Segretario Generale della NATO, Javier Solana, specificando che in relazione a tale intervento non si trattasse di una dichiarazione di guerra alla Jugoslavia ma di
sostegno alla ricerca della pace nel Kosovo. È evidente che la medesima chiave ermeneutica dell’
articolo 5 non valga per un aggressore sufficientemente organizzato e dal grilletto apparentemente facile sulla “deterrenza nucleare”. Senza nascondere che la questione sia esattamente posta in questi termini, il pragmatico Presidente degli Stati Uniti John Biden ha sostanzialmente chiarito l’
impasse:
la NATO non interviene militarmente per evitare la Terza Guerra Mondiale.
Più chiaro di così…
Per il secondo intervento della NATO, torna in auge l’interpretazione letterale dell’articolo 5: la NATO attacca l’Afghanistan dei talebani, in quanto Stato da cui sarebbe partito l’attacco dell’11 Settembre contro gli Stati Uniti d’America.
L’articolo 5 è invece reinterpretato “solanamente” nel terzo (e finora ultimo) intervento militare della NATO, contro il regime di Gheddafi in Libia.
Tralasciando l’approfondimento di fatti deplorevoli quali l’utilizzo in Serbia e in Kosovo di granate a uranio impoverito da parte degli USA , a insaputa degli stessi alleati (tanti sono i casi italiani di morti, per sopravvenuti tumori in seguito all’esposizione, ancora al vaglio dei tribunali) o, dopo vent’anni, la restaurazione in Afghanistan dello stesso regime talebano che si sarebbe voluto estirpare per consentire una transizione democratica del Paese,
agli interventi militari della NATO sono sostanzialmente conseguiti disastri umanitari: sia per l’impossibilità fisiologica di non coinvolgere i civili nei bombardamenti, sia per l’ininfluenza rispetto alla permanenza delle tensioni tra le diverse etnie in conflitto e riguardo al non rispetto dei diritti umani.
Oggi ci chiediamo se sia giusto che la NATO non intervenga in Ucraina. Tuttavia
cosa ci fa credere che, dal punto di vista umanitario, un intervento NATO migliorerebbe la situazione?
HA SENSO RIMANERE ANCORA NELLA NATO?
Se l’obiettivo di Nazioni come l’Italia, la Francia o la Germania è l’ottenimento della sufficiente deterrenza militare per non essere invase dal Putin di turno, risulta finora pienamente soddisfatto. Tuttavia, a mio modesto avviso, bisogna considerare in egual misura anche un altro aspetto: Italia, Francia e Germania, che sono tra l’altro le tre maggiori potenze economiche dell’Unione Europea, nell’ultima decina d’anni hanno avuto spesi militari oscillanti tra l’1,2% e il 2,1% del proprio PIL. La Russia, con un PIL di poco inferiore alla stessa Italia (che a sua volta è economicamente più debole rispetto a Germania e Francia) ma con una popolazione due volte e mezzo superiore, per le spese militari, dal 2011 al 2021 ha invece impiegato dal 3,4% al 5,4% del proprio PIL. Solo “per la cronaca” (in quanto si tratta di popolazioni ed economie imparagonabili), gli Stati Uniti, nel periodo preso in considerazione, hanno speso tra il 3,3% e il 4,8% del proprio PIL; la Cina ne ha invece moderatamente attinto tra l’1,7% e l’1,8%; infine la percentuale media mondiale di spesa militare rispetto al PIL, nel 2021, è stata del 2,4%. A un primo distratto sguardo, non solo la Russia spende in proporzione mediamente di più degli stessi USA ma, per le tre potenze europee prese in considerazione,
essere nell’alveo della NATO sembra consentire di abbattere considerevolmente le spese militari (proprio in virtù del fatto che la difesa di un paese membro dell’alleanza atlantica è questione congiunta di tutti i membri).
Esaminiamo, come una sorta di cartina di tornasole, la spesa per la sanità, riferendoci però all’anno precedente lo scoppio della pandemia da Covid (in modo da avere dati “ordinari”). Nel 2019 l’Italia ha speso l’8,7 % del PIL, la Francia l’11,1%, la Germania l’11,7%, la Russia il 5,6%.
Se paragoniamo anche la spesa per l’istruzione pubblica (sempre in proporzione rispetto al PIL), dal 2014 al 2018, la Francia si è sempre mantenuta poco oltre il 5%, la Germania e l’Italia intorno al 4% (un po’ meglio la Germania), la Russia raramente si è scostata di molto dal 3%.
A un secondo (e sempre distratto) sguardo
sembra quindi che le spese per la sanità e l’istruzione pubblica di economie e forme di welfare, a grandi linee, simili siano maggiori per chi spende meno per armarsi.
Un paio di doverose considerazioni: vero è che le spese militari cinesi ammontano a solo l’1,7% del PIL , ma questo 1,7% tradotto in valore assoluto è una cifra enorme, così come se si traducono le percentuali di spesa russa in valori assoluti e rispetto alla sua popolazione, le sproporzioni balzano ancor maggiormente all’occhio. Poi, certamente, possiamo parlare di maggiore o minore efficacia delle risorse investite (e in Italia non siamo mai stati particolarmente bravi nell’ottimizzare le spese) o della correttezza di considerare come misura di riferimento valida il PIL, ma la sostanza del discorso non cambierebbe molto.
Credo quindi (stavolta senza troppa distrazione…) di poter concludere che
essere nella NATO, in virtù del principio di difesa collettiva, convenga soprattutto in ottica di risparmio economico sulle spese militari.
DALLA RIVOLUZIONE ARANCIONE ALLE LOTTE DI POTERE NEL DONBASS
La Crimea fu ceduta all’Ucraina dalla Russia (entrambe in seno all’URSS) nel 1954, essenzialmente per questioni di convenienza politica (dopotutto con un’Unione Sovietica che si riteneva potesse prosperare per secoli, si sarebbe trattato solo di una formalità). Con la dissoluzione dell’URSS nel 1991, la Crimea rimane però all’Ucraina.
Con la rivoluzione arancione, nel 2004, l’Ucraina guarda con crescente desiderio all’Occidente. Così i progetti russi di includere l’Ucraina nell’organizzazione che dal 2015 si sarebbe chiamata Unione Economica Euroasiatica, incontrano i primi ostacoli. L’Unione Economica Euroasiatica è oggi un mercato comune tra ex stati sovietici (Russia, Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan), con unione doganale, coordinazione di politiche monetarie e commerciali, e libertà di circolazione di beni, capitali, servizi e persone. Freno alla trasformazione in un’organizzazione più coesa, sul modello dell’Unione Europea, è il timore da parte degli Stati più piccoli di perdere autonomia nei confronti della Federazione Russa (che di fatto già ne esercita il controllo).
In Ucraina, all’inizio del 2014, una serie di proteste e manifestazioni popolari contro il riavvicinamento politico alla Russia operato dal Governo Yanukovyc, sfocia in una brutale repressione da parte delle forze di polizia, che provocano veri e propri tumulti popolari, ai quali conseguono un cambio di regime politico e la formazione di un nuovo governo (riconosciuto da USA e EU ma non dalla Russia). Il nuovo corso tenta di abrogare la legge che riconosce il russo come lingua ufficiale a fianco all’ucraino, suscitando però indignazione fra i russofoni di Crimea e del Donbass, costringendo il nuovo presidente ucraino a porre il veto per non abrogarla.
In Crimea si assiste a manifestazioni pro Russia e contro il governo ad interim. I filo-russi (coadiuvati da “anonime” forze militari) prendono il controllo della penisola. Il 16 marzo 2014, tramite un discusso referendum popolare, viene decretata l’autonomia della Repubblica di Crimea dall’Ucraina. Il 15 maggio 2014, un altrettanto discusso referendum ratifica l’ingresso della Crimea nella Federazione Russa.
Dinamiche simili concorrono alla nascita della Repubblica Popolare di Doneck il 7 aprile 2014 e della Repubblica Popolare di Lugansk il 27 aprile 2014 (la ratifica per entrambe avviene ufficialmente, tramite referendum, il 12 maggio).
Le radici del difficile contesto politico-sociale ucraino, affondano nella dissoluzione dell’Unione Sovietica, quando i vertici della burocrazia (la cosiddetta nomenklatura) si appropriano dei beni e dei capitali che prima avrebbero gestito per conto dello Stato, trasformandosi in ricchi e potenti oligarchi in grado di influenzare la politica e le dinamiche sociali delle aree controllate. Il Donbass in particolare, a ragione del suo status di regione industrializzata e ricca di risorse naturali, diviene un’area particolarmente ambita e proprio il presidente della “discordia”, Yanukovyc, è fra i primi a mettervi le mani.
I contrasti tra i vari oligarchi, per contendersi le fette più grandi della torta ex sovietica, sfociano spesso in scontri tra le personali milizie mercenarie. Con la “deposizione” e la conseguente fuga in Russia di Yanukovyc, i conflitti tra gli oligarchi “candidati” a riempiere il vuoto di potere creatosi in Donbass, si acuiscono. Nel frattempo la profonda crisi economica dovuta in parte agli accordi di Minsk (che provocano un ufficiale isolamento economico da Mosca), in parte alla sopraggiunta pandemia da Covid, in parte alle continue vessazioni che una porzione della popolazione continua a subire, provoca l’
abbandono del Donbass verso Kiev di due milioni e mezzo di cittadini.
LA DONAZIONE DI COSTANTINO
Secondo un sondaggio condotto a fine marzo 2014 dall’Istituto di ricerca sociale e analisi politica di Donetsk,
solo il 26,5% dei residenti a Donetsk avrebbe sostenuto le manifestazioni filorusse e, addirittura, solo il 4,7% avrebbe voluto la secessione dall’Ucraina. Altro sondaggio parallelo, condotto da Gallup per conto dell'International Republican Institute, conferma la bassa percentuale (4%) di cittadini di Donetsk desiderosi di separarsi dall’Ucraina.
Considerando l’autorevolezza degli istituti coinvolti e supponendo quindi la trasparenza e la buona fede nella conduzione dei suddetti sondaggi, sopraggiungono sospetti non solo riguardo a possibili minacce e costrizioni che la popolazione avrebbe subito al fine di “orientare” le intenzioni di voto, ma anche sulla manipolazione dei risultati stessi dei referendum…
Da quanto emerge dai report degli osservatori OSCE (disponibili sul sito ufficiale), il “genocidio” dei cittadini di etnia russa nel Donbass, sbandierato da Putin per giustificare la sua missione di peacekeeping, è una falsa montatura mediatica. In particolare, in un rapporto pubblicato a maggio 2014, si sottolinea che le violazioni dei diritti umani, nel Donbass e nella Crimea, avvenivano da parte di non meglio identificati “gruppi armati” ed era principalmente diretta nei confronti di “attivisti e giornalisti pro-Maidan” (favorevoli alla svolta europeista). Viene esplicitamente scritto che non vi fosse alcun peggioramento del rispetto dei diritti delle minoranze russofone, sebbene in Ucraina fosse comunque carente un’adeguata legislazione di tutela, ma si denuncia invece una
drammatica, in particolare in Crimea, situazione per le etnie ucraine e tartare. Da segnalare inoltre che da una rapida lettura di report dell’OSCE, intercorsi tra il 2014 e i fatti più recenti, si rilevano costanti proteste d'impedimento ad accedere nel Donbass da parte dei soliti generici “gruppi armati” e addirittura, nei giorni precedenti all’invasione, si citano militari recanti mostrine della Federazione Russa.
Considerando che dell’OSCE fa perfino parte la Russia...
DUE PESI, DUE MISURE: KALININGRAD
Kaliningrad, capoluogo dell’oblast’ omonimo, exclave russo sul mar baltico, fra la Lituania e la Polonia, nacque come Königsberg nel XIII secolo d.C. ad opera di cavalieri teutonici, rimanendo culturalmente e politicamente un’importante città tedesco/prussiana fino al 1945.
La popolazione tedesca fu forzatamente espulsa e sostituita con popolazione sovietica. E se i tedeschi oggi la rivendicassero?
In fin dei conti la Crimea fu ceduta all’Ucraina solo pochi anni dopo…
E se gli austriaci rivendicassero il Südtirol italiano? E quante Nazioni potrebbero rivendicare la Sicilia?
Insomma, se in tutto il mondo si cominciassero ad applicare anacronistiche logiche irredentistiche, potrebbe davvero scoppiare la Terza Guerra Mondiale. Perdonatemi una banalità da
Libro Cuore, ma in un mondo che va verso macrostrutture politiche di matrice federale sempre più ampie, che senso ha guardare alle differenze e non agli interessi di pace e cooperazione che ci accomunano?
Inoltre,
chi dà diritto a Putin di decidere se l’Ucraina debba o no entrare nella NATO o nell’UE?
Il futuro del nostro pianeta non dipende dall’impedire che l’Ucraina, la Georgia o la Moldavia entrino nell’Unione Europea o nella NATO, ma è dato dal
cominciare a porre le condizioni affinché la NATO non abbia più senso, armarsi fino ai denti non abbia più senso, rivendicare la Crimea o Taiwan non abbia più senso. Di certo, con l'invasione dell’Ucraina, Putin ha solo esasperato le tensioni con l’Occidente, allontanando la realizzazione di condizioni affinché si possa seriamente
cominciare a parlare di smilitarizzazione. Cantava Franco Battiato che
l'evoluzione sociale non serve al popolo, se non è preceduta da un'evoluzione di pensiero. Nel frattempo, per tre volte i servizi segreti russi avrebbero sventato attentati alla vita del presidente ucraino Zelensky: che il popolo russo si sia stancato di essere governato dagli Zar?
Vi lascio i link per verificare i dati riportati:
Qui trovate il report delle spese militari, Stato per Stato, dal 1988.
Qui uno studio sulle statistiche delle spese sanitarie, Stato per Stato, dal 2000.
Qui un articolo (esplicitamente di parte) che ho trovato estremamente interessante, sulla situazione nel Donbass.
Qui il testo del Trattato del Nord Atlantico.
Qui i dati mondiali sulle spese per la sanità .
Qui i dati del sondaggio IRI.
Qui il report dell’OSCE del 12 maggio 2014.