Culinariamente cresciuto tra Messina e Pachino, dilettandomi tra forni e fornelli, ho per forza di cose sviluppato una
visione sincretica della cucina siciliana, in special modo dei prodotti panari. La cucina regionale è infatti estremamente varia e differente da provincia a provincia. La ragione è storica: vari e differenti sono stati gli influssi culturali delle tante dominazioni susseguitesi e accavallatesi, le quali hanno più o meno contaminato determinate zone della Sicilia. Complicato identificare un chiaro filo conduttore tra il cous cous trapanese, la scaccia ragusana, la cipollina catanese, la pasta con le sarde palermitana e le braciole messinesi. Un tour culinario della Sicilia si rivelerebbe talmente ricco e complesso da non scontentare nessun palato. Tuttavia non bisogna stupirsi se in una rosticceria messinese non potrete mai assaggiare una scaccia ragusana e in una macelleria ragusana nessuno vi servirà mai delle braciole messinesi…
Pachino attinge la sua tradizione culinaria più dal territorio ragusano che siracusano, nonostante si trovi in provincia di Siracusa…pardon, nel libero consorzio comunale di Siracusa. Da originaria colonia esclusivamente maltese (per decreto regio) si è successivamente popolata soprattutto di famiglie provenienti da paesi d’influenza ragusana, ad esempio da Ispica e Scicli. Non a caso anche il dialetto pachinese è più simile al ragusano che al siracusano. Pachino nasce nel XVIII secolo come paese agricolo e si sviluppa come tale, eccellendo nella produzione di uva e ortaggi di indiscussa qualità. Tuttavia, lì dove le
ristrettezze economiche e la fatica del lavoro nei campi non lasciano troppo spazio alla cura di interessi extra lavorativi, può esserci solo una
limitata sperimentazione e innovazione culinaria, aspetto che cammina pari passo con la crescita culturale. Al contrario, Messina affonda le radici in epoca greca ed è sempre stata una città dall’ampio respiro culturale. Le elargizioni di particolari privilegi e autonomie alla “città dello Stretto” da parte delle “dominazioni” susseguitesi in Sicilia, confermano quanto la classe nobiliare messinese fosse politicamente rilevante e tenuta in gran conto, fattore che ha permesso all’economia di Messina di prosperare almeno fino al 1908 (infausto anno del sisma che la rase al suolo). E
dove c’è ricchezza sussistono le condizioni affinché la cultura e l’arte, anche culinaria, prosperino.
Tuttavia le grandi città siciliane, ovviamente, non sono state esclusivamente sede di nobili e ricchi. Il sostrato popolare messinese, che certamente non poteva permettersi pesce spada alla
ghiotta ogni giorno, ha tramandato espressioni culinarie “povere”, figlie più della necessità di sfamarsi che della ricerca di un gusto raffinato, quindi pietanze analoghe e assimilabili alla cultura del cibo “contadino” di paesi come Pachino.
La
focaccia messinese, ne è un esempio. Si tratta di un prodotto panario condito con quegli ingredienti che ogni messinese in tempi di magra riusciva comunque a procurarsi, ossia
tuma (tecnicamente la prima fase di lavorazione del pecorino, quindi un formaggio fresco, non stagionato),
scarola riccia (una verdura detta anche
indivia nella penisola) e acciughe sott’olio. Nel novecento la focaccia messinese si è arricchita di pomodoro tagliato a pezzi, evolvendosi nella forma oggi conosciuta. Altro protagonista panario emblematico della tradizione culinaria popolare messinese è il cosiddetto
pitone, termine che in realtà è una storpiatura dell’originario dialettale
piduni, ossia “grosso piede”. Si tratta in soldoni di una sorta di calzone fritto (ma con impasto non lievitato), condito con i medesimi ingredienti della focaccia.
A Pachino, il ruolo della focaccia e dei pitoni messinesi è recitato dalla
pizza muddiata, ossia una sorta di focaccia con impasto ad alta idratazione, dai
caicchi e dai
votavota.
Caicchi e
votavota sono invece assimilabili a calzoni al forno, tradizionalmente conditi con salsiccia, broccoli e cipolle, baccalà, patate e cipolle, prezzemolo, pomodoro, acciughe e…cipolle.
Alla luce della mia frequentazione con entrambi gli “ambienti culinari”, ho cercato sintetizzare le idee di fondo in una versione personale di
focaccia che semplicemente definirei
siciliana.
L’impasto
Per un chilogrammo di impasto utilizzo tre “tipologie” di farina: 400 grammi di
Manitoba (o comunque una farina “0” di grano tenero particolarmente
forte), 100 grammi di
Russello e 100 grammi di Tumminia (entrambi antichi grani duri siciliani, la prima una classica semola, la seconda assimilabile a un’integrale) che impasto in 400 grammi di acqua minerale a circa 25-27 gradi centigradi, con 5-10 grammi di lievito di birra fresco, 15 grammi di zucchero e 15 di sale. Appena l’acqua risulta completamente assorbita (in ogni caso, in questa fase, l’impasto rimane un po’ appiccicoso), lo lascio riposare per circa 20 minuti, coprendolo con un panno pulito.
Trascorsi i 20 minuti aggiungo 15-20 grammi di olio extravergine d’oliva, ripiegando l’impasto più volte su se stesso, fin quanto l’olio non è completamente assorbito e l’impasto questa volta risulta liscio, quasi per nulla appiccicoso ed elastico (alla lieve pressione di un dito l’impasto dove tornare al punto originario).
Faccio lievitare (e maturare) quest’impasto per circa 24 ore, in una ciotola coperta da un panno, a temperatura ambiente (in estate però, in relazione al caldo, lo metto in frigorifero dalle 12 alle 20 ore), lontano da correnti d’aria e luce diretta del sole (preferibilmente in un ambiente chiuso e almeno in penombra). Trattandosi di un impasto a idratazione medio-alta (67-70%) eseguo le
pieghe, ossia ripiego più volte la pasta su se stessa, ogni 3-4 ore (chiaramente, a meno di non puntarvi la sveglia nel cuore della notte, nei limiti del possibile…) ma non oltre la ventesima ora: in questo modo, in soldoni, si rimette in moto il processo di lievitazione, evitando che l’impasto “collassi” e, collateralmente, si asciughi esternamente.
Per stenderlo, getto della semola sul piano di lavoro e adagio delicatamente l’impasto su di esso. Cospargo di semola anche l’impasto e delicatamente premo al centro dell’impasto con le dita e il palmo della mano, facendo in modo che l’impasto si espanda verso l’esterno (curandomi di non far fuoriuscire l’“aria” immagazzinata) e assuma forma discoidale. A questo punto lo divido in quattro parti, ottenendo così “panetti” da 250 grammi. Tali “panetti” li stendo rigorosamente a mano, assolutamente senza l’ausilio del mattarello, assecondando la loro fisiologica propensione a mantenere la forma acquisita se l’impasto viene distribuito gradualmente. Per espanderli maggiormente utilizzo la tecnica a “schiaffo” tipica dei pizzaioli napoletani.
Il condimento
Vi suggerisco di provare un condimento “siciliano” che a me piace moltissimo: broccoli, tuma e salsiccia.
Mettete a bollire in acqua salata un chilo broccoli (quelli verdi, per intenderci) e scolateli quando una forchetta riesce facilmente a infilzare il gambo. Fateli raffreddare e tagliateli grossolanamente. Fate soffriggere una cipolla (tritata a coltello) in un po’ di olio extravergine d’oliva, avendo cura di tenere la fiamma molto bassa, cosicché l’olio e la cipolla non brucino. Tagliate più o meno a rondelline mezzo chilo di salsiccia messinese condita. Aggiungetela al soffritto, alzando lievemente la fiamma. Rosolata lievemente la salsiccia, aggiungete i broccoli e, aiutandovi con cucchiaio di legno, schiacciateli e saltateli brevemente col resto del condimento. Regolate di sale. Tagliate finemente due o tre etti di tuma e riponetela in una ciotola.
La cottura
Questo tipo di impasto l’ho testato sia nel mio “casalingo” forno elettrico su pietra refrattaria (quindi a 250 gradi), sia nel forno a legna di mia nonna, sempre su pietra refrattaria (a 320 gradi). Funziona in entrambi i casi, ma sconsiglio cotture a temperature inferiori.
Se utilizzate un forno elettrico “casalingo”, infornate solo dopo che il forno avrà raggiunto il massimo della temperatura, assolutamente non prima. I 250 gradi che può raggiungere un forno casalingo rappresentano il “minimo sindacale” (e rimangono comunque pochini). Se quindi (realisticamente) utilizzate un forno “casalingo”, aggiungete la tuma solo un paio di minutini prima del termine della cottura, altrimenti i relativamente lunghi tempi di cottura necessari a 250 gradi, la farebbero bruciare. La focaccia è pronta quando il
cornicione ai bordi comincia a “imbrunirsi”.
E se il bon ton ancora lo consente, buon appetito!
CART RUTS MODELLATE SU ROCCIA MORBIDA?
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Alcune cart ruts di contrada Targia, a Siracusa, e la maggior parte delle cart ruts di Granatari Vecchi, a Rosolini, danno l’impressione di essere state impresse, modellate, su una roccia all’origine viscosa, non del tutto solida. Per quanto assurda possa sembrare quest’ipotesi, in particolare a Granatari Vecchi, la morbidezza delle forme e l’uniformità quanto meno anomala del banco roccioso, come se si trattasse di una gettata di cemento, che ospita le cart ruts, è un unicum rispetto al contesto litico in zona.
A Targia tale fenomeno è meno impressionante ma se si considerano le cart ruts essenzialmente carraie, quindi strade solcate derivanti indirettamente dal passaggio ripetuto dei carri lungo il medesimo tragitto, non si comprende il motivo per cui tale uniformità e levigazione sia presente, nella maggior parte...
CREMAGLIERA O ALLOGGIAMENTO PER GLI ZOCCOLI?
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In presenza di pendenze, anche leggere, in alcune cart ruts in contrada Targia, a Siracusa, si rilevano dei fori centrali dal diametro tra 30 e 50 centimetri e dalla profondità di 15-20 centimetri, distanti tra loro circa 50 centimetri. Non appare perfettamente regolare né la posizione (non sono esattamente al centro della carraia e perfettamente allineati tra loro), né la forma: o lo scorrere del tempo e l’eventuale usura ne hanno modificato profondamente l’originaria forma o, semplicemente, non hanno mai avuto una sistematica regolarità. Tuttavia lo sfalsamento di posizione tra un foro è l’altro, non è mai completamente “fuori asse”: c’è sempre una porzione larga una ventina di centimetri che coincide con la medesima porzione del foro precedente e susseguente. I fori meglio conservati e più definiti si...
CART RUTS E QUALCHE SPORGENZA DI TROPPO
Leggi anche LA LEVIGATURA DELLE CART RUTS
Salto ogni preambolo, rimandando a a quanto già scritto in merito alla presenza di cart ruts nella Sicilia sud orientale.Vagliando la possibilità che le cart ruts siano state gradualmente scavate dal passaggio di carri trainati da animali da soma, ad esempio coppie di buoi, osservando determinati tratti delle cart ruts presenti in contrada Granatari Vecchi, a Rosolini, e in contrada Pizzuta, a ridosso della Riserva di Vendicari, sorgono due domande:
1. Perché costringere gli animali a passare su asperità e sporgenze alte, rispetto alla base dei solchi, anche 60-70 centimetri?
2. Perché, alla presenza di tali ostacoli, non optare per una deviazione?
Per Mottershead, Pearson e Schaefer tali sporgenze si sono manifestate a posteriori, poiché ai tempi dei passaggi dei carri, uno strato di terra ricopriva il banco roccioso, non...
LA LEVIGATURA DELLE CART RUTS
Leggi anche I PROBLEMATICI BORDI DEI SOLCHI DELLE CART RUTS
Salto ogni preambolo, rimandando a a quanto già scritto in merito alla presenza di cart ruts nella Sicilia sud orientale.
Per procedere a questo paragone ho scelto un probabile capitello e l’angolo di un incavo presente in un blocco delle mura nord di Eloro che parrebbe somigliare a un pinax, cioè a una nicchia che avrebbe ospitato un affresco degli heroa, ma che un’osservazione più accorta rimanda a un sistema funzionale alla presa del blocco tramite un argano a pinza. Entrambi gli elementi sono, come le curt ruts, rimasti per millenni in balia delle intemperie, soggetti quindi a un paragonabile logorio dovuto al passare del tempo. La rifinitura del capitello dovrebbe essere di alto livello, poiché elemento architettonico avente funzione anche estetica. L’incavo, invece, avrebbe dovuto esigere solo una rifinitura...
I PROBLEMATICI BORDI DEI SOLCHI DELLE CART RUTS
Salto ogni preambolo, rimandando a a quanto già scritto in merito alla presenza di cart ruts nella Sicilia sud orientale.Come riscontrabile anche in altri siti nel mondo, in alcune cart ruts da me visitate, in particolare in contrada Cugni a Pachino, in contrada Granati Vecchi a Rosolini e in contrada Targia a Siracusa, si rileva una netta bordatura, una sorta di cornice, a fianco ai solchi, maggiormente marcata esternamente, appena accennata internamente.
Le bordature da me misurate hanno una larghezza di 14-20 centimetri e un’altezza di 8-10 centimetri.
Non in tutte le cart ruts tali cornici sono presenti o particolarmente evidenti, a prescindere dal grado di usura o degrado. Si riscontrano soprattutto nelle cart ruts dai solchi meno profondi.
Come già ampiamente descritto, data la presenza di solchi dalla profondità anche di 65-70 centimetri, le ruote di un eventuale veicolo...
IL PROBLEMA DELLE CART RUTS NELLA SICILIA SUD ORIENTALE (QUARTA PARTE)
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Clapham Junction
Come nel sito maltese Misrah Ghar Il-Kbir, anche nelle contrade Targia e Granatari Vecchi le cart ruts si intersecano e si incrociano in modo simile agli scambi dei binari in una stazione ferroviaria. Il soprannome Clapham Junction che è stato dato da David H. Trump al sito maltese, deriva proprio dalla somiglianza con la nota stazione ferroviaria inglese. Per la Sagona si tratta di solchi agricoli e canali d’acqua, per Mottershead, Pearson e Schaefer si tratta di percorsi abbandonati per via di ostacoli e usura. Non sappiamo ovviamente quale fosse la morfologia del territorio siracusano e rosolinese ai tempi in cui furono tracciate le cart ruts, ma considerando il contesto attuale, di certo non ci sarebbe stato alcun motivo agricolo per realizzarle, data la presenza di terreni fertili, di fonti e corsi d’acqua dolce...
IL PROBLEMA DELLE CART RUTS NELLA SICILIA SUD ORIENTALE (TERZA PARTE)
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Considerazioni sulle tesi di Mottershead, Pearson e Schaefer
Trovo tale studio estremamente interessante, anche se mi perplime quest’enfasi sulla perdita di durezza della roccia bagnata dato che Malta è fra i territori europei a maggior rischio di desertificazione (come lo è purtroppo anche la zona sud orientale della Sicilia). Non sappiamo esattamente che clima ci fosse a Malta durante la realizzazione delle cart ruts, dato che non sappiamo nemmeno con certezza a che epoca risalgano. In ogni caso, potrebbe essere comprensibile prendere il fattore umidità in forte considerazione, in relazione a un territorio costantemente soggetto a precipitazioni, ma per quale motivo gli antichi maltesi avrebbero dovuto intensamente fare viaggi con carri carichi proprio dopo un acquazzone, con tutti i disagi che per esempio il fango avrebbe...